Guardavo mio padre in equilibrio su una scala che tentava, indossando la sua immarcescibile camicia e il doppio paio di occhiali da vista, di svitare due pannelli di un vecchio armadio che si è trovato in casa.
Mio padre ha quasi settant’anni, anche se a guardarlo in faccia gliene daresti venti in meno. Si è appena preso un appartamento in affitto. Per questo guardarlo in bilico sulla sua scala mi ha fatto pensare che non vale la pena di fermarsi, una lezione che mi arriva proprio da lui, il più grande procrastinatore che io conosca. Smontavamo l’armadio orribile di legno cacchetta, di quelli che trovi giusto negli ostelli, perché girandolo ci aveva trovato la schiena marcita, e il fungo avrebbe preso anche altre parti della stanza. Sono salito sulla scala per aiutarlo, al primo colpo che ho tirato al pannello per staccarlo dalla sede mi sono schiacciato un dito che ha iniziato a sanguinare. Nel bagno vuoto e luminoso della sua nuova casa da quasi settantenne, mi ha medicato come quando avevo venticinque anni in meno di oggi.
Abbiamo smontato i pannelli uno dopo l’altro, li abbiamo accatastati, poi io sono sceso in giardino e me li sono fatti calare dal terrazzo, per portarli nel suo nuovo garage, in cui la sua esistenza era impacchettata in scatoloni con le sigle G, M e P, che stanno per Grande, Medio e Piccolo. Nel suo iPad aveva annotato in quale scatola aveva messo cosa, per trovarlo più facilmente all’occorrenza. Abbiamo fatto spazio per stenderci i pannelli dell’armadio più alti, abbiamo messo un piccolo supporto di cartone sotto per evitare che l’umidità lo facesse marcire ancora. Alla fine occupava poco spazio, non si notava quasi. Abbiamo guardato il tutto da fuori, poi ho guardato mio padre negli occhi per saggiare la sua soddisfazione, forse era quasi felice.
qui di anni ne aveva davvero venti di meno.
Forse ero quasi felice quel giorno di gennaio in cui mi sono presentato dal mio medico di base per farmi dare il via libera a scalare gli antidepressivi, fino a smetterli in poche settimane; o, comunque, non tornavo in quella sala d’aspetto dai giorni in cui gli attacchi di panico trasformavano ogni uscita di casa in un salto nel vuoto fra le rocce, quindi mi sentivo pronto. Invece è successo tutto in un istante. Mi ha guardato fisso negli occhi, ha inclinato la testa e aggrottato le sopracciglia, mi ha chiesto “come stai?” con aria inquisitoria, come se si aspettasse una confessione. È stato lì che sono improvvisamente tornato sincero con me stesso: seduto di tre quarti, come quando si andava dal fotografo per la fototessera, ho guardato in basso, tra il mio ginocchio e il lettino che stava a fianco alla scrivania della dottoressa e le ho detto “in realtà ultimamente non benissimo.” Che voleva dire che forse non potevo permettermi il lusso di pensare che fosse tutto alle spalle. E dopo soli sei mesi, in effetti, era del tutto plausibile.
Un giorno di metà giugno, tornando da lavoro, mi aspettava la solita serata da solo in cui avrei preparato qualcosa da mangiare, l’avrei mangiato, poi avrei lavato i piatti, perso il tempo in qualche modo, fumato una sigaretta e infine mi sarei messo a letto. Sono sceso dal tram, ho salutato Laura con cui avevo fatto la strada e proprio sotto casa una nube nera di cui nessun altro pareva avvertire la presenza mi ha assalito, e anche solo prendere in mano il cellulare per riconnettermi alla vita da cui avevo appena staccato era come ficcarci la testa dentro. Ho pensato che forse non volevo stare solo anche quella sera, e quindi sono andato nell’unico posto in cui ero sicuro che avrei trovato aperto. Ho guidato verso casa dei miei per dieci minuti o mezz’ora, non lo so perché non ero già più lì. Quando ho iniziato a salire le scale, con mia madre che mi aspettava sulla porta, stavo già piangendo a singhiozzi. “Cosa succede?” “Credo di essere un po’ stressato, mamma”.
Non vi dirò i motivi per cui è accaduto tutto questo, anche perché dopo un po’ di terapia fai fatica a mettere in scala i fatti scatenanti, le ferite di medio termine e le fossilizzazioni di dolore incrostate per anni. Il problema è che fa fatica a farlo la testa nel momento in cui scoppia l’esaurimento nervoso, manifestandosi in crisi di pianto, attacchi di panico, paura che ad ogni angolo tu possa svoltare si materializzi di fronte a te la scena che ti rovina la vita, vedere la instagram story sbagliata o incontrare la persona che dice la cosa meno adatta. Significa arrivare a un punto in cui non puoi veramente parlare con nessuno, perché i tuoi rapporti, tutti, si basano sul presupposto di voler piacere alle persone con cui passi il tempo. Per questo tendiamo a non mostrare i nostri lati peggiori, a mentire, e questo è del tutto normale finché siamo in grado di convivere con un nostro io disgustoso, e a bollarlo come una parte disprezzabile di noi che sappiamo tenere a bada. Ma quando questa parte si prende tutto minaccia noi e tutti gli affetti che ci siamo costruiti. Quello che è successo è che io, da quella sera in cui mi sono contratto piangendo sul divano di mia madre, ho perso il controllo delle cose disprezzabili che penso, e ho avuto paura che mi portassero via tutto, se solo le avessi ammesse a qualcuno.
Quindi neppure a mia madre sono riuscito a dire cosa mi aveva portato lì, ma d’altronde non ero più in grado di trattenere i singhiozzi. Ogni tanto il respiro accelerava, e dovevo concentrarmi per calmarlo prima che uscisse dai binari. L’unica alternativa che avevo era dissociarmi, cercare di separare il mio corpo dalla mia mente, e il corpo da bravo ha ubbidito, ha capito che era la cosa migliore per tutti e due. Da lì in poi ha perso le forze, l’appetito, il colore, il calore, tutto. Alzarsi dal letto, fare qualsiasi cosa comportava fatica, uno sforzo enorme. Tutte le energie del cervello erano impegnate nel far tacere la percussione dei pensieri che, giuro, erano martellanti. Uso questa parola consapevole della grave inflazione, ma non esiste un’immagine che parli più del rumore delle martellate, costanti, sorde, tutte a loro modo fastidiose, e che si ripetono con una precisione tale da illuderti di non poter terminare mai più.
C’è quella famosissima citazione dall’incipit di Anna Karenina di Tolstoj:
Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo.
È un assunto che si può estendere al dolore in generale, ed è l’insegnamento più prezioso che ho avuto da questa storia, e che ho compreso soltanto attraversandolo. Non ci deve essere per forza un motivo grave per trasformarti in una larva incapace di affrontare la vita. Ci sono problemi enormi, grossi, medi, lievi, persino futili, ma tutti si assomigliano quando diventano troppo grandi per il momento che stai attraversando. E tutti sono a loro modo irrisolvibili e voraci della nostra veglia, e spesso anche del nostro sonno. Tra il mio corpo ormai spento e la mia testa martoriata, per l’impossibilità di parlare a qualcuno dei motivi per i quali mi sentivo ormai una persona disgustosa che non meritava di vivere e di avere niente, si era inserito anche questo fattore: gli altri. Chi aveva lutti veri, chi stava peggio di me, chi aveva problemi ben più gravi e li affrontava con ben altra dignità. Il tribunale del dolore ha un codice penale di casistiche amplissime, e nella gara della gravità il mio arrivava tra gli ultimi. A chi avrei potuto raccontarlo? Come avrei potuto sopravvivere a una vergogna doppia?
Dal medico ci sono andato sulle mie gambe, ma solo perché altrimenti avrei potuto rimanere sul divano ad aspettare che il tempo mi consumasse. Avevo due motivi urgenti: il primo era farmi dare qualche giorno di riposo da lavoro, perché la mia nube nera, lo sentivo, veniva da lì, e io d’improvviso non ero più in grado di metterci piede in quell’ufficio, che per tanti anni era stato come casa; il secondo era farmi prescrivere qualche pastiglia in grado di risolvermi il problema.
La diagnosi mi sembrava chiara: stress, ansia, quelle robe lì, ho tirato troppo la corda. In fondo erano mesi che mi raccontavo di non stare poi così bene, e non capivo perché tornavo a casa incazzato e con la voglia di mollare tutto un giorno su tre, litigavo con le persone, sbottavo. In alcun giornate non riuscivo a fare nulla, anche perché non avevo nulla da fare. Ero vuoto dentro e sulla scrivania, e vedevo tutto attorno a me andare avanti. Avevo cominciato a sentirmi vecchio e inutile a neanche trentadue anni. Ma questi erano i mesi prima, in cui avevo anche dato la colpa al fumo e all’alcool, che evidentemente non controllavo più, e avevo fatto il Dry February, perché febbraio aveva meno giorni di tutti. Ho interrotto il voto il 27 febbraio, tanto era quasi fatta.
Insomma, una volta uniti quei puntini, mi aspettavo che il medico mi firmasse una ricetta per qualche pastiglia, tipo lo Xanax. È ok prendere lo Xanax, alla fine, la mia generazione lo fa, quest’anno tocca a me. Ne prenderò qualcuna e in qualche giorno starò meglio. Il medico i giorni di riposo me li ha anche dati, lo Xanax e il Lexotan pure, però mi ha detto di tornare dopo cinque giorni. Bene, in cinque giorni andrà meglio e tutto sarà alle spalle.
In quei giorni gli attacchi di panico si sono diradati, la testa era ancora concentrata su quello che mi faceva stare male, il corpo debole, ma l’idea di tornare in ufficio non mi faceva più venire da vomitare. Ne avevo dedotto che la mia diagnosi fosse corretta. Avevo bisogno di una pausa, e qualche pasticca, e rieccomi lì, pronto per l’estate.
In mezzo c’erano stati giorni di distrazione forzata: la mia ragazza era tornata da un lungo periodo all’estero il giorno dopo la mia crisi, però aveva con sé un’ospite che si sarebbe fermata da noi qualche giorno: una cosa programmata da tempo. Mi sono trascinato con loro per la città per distrarmi. La distrazione è un concetto proprio impossibile, inesistente, quando stai così. Non c’è luogo in cui tu possa sfuggire alla tua testa. Non esiste attività che ti sappia coinvolgere più dei pensieri che ti attanagliano. Le forze della giornata per due terzi vanno a mettere un freno alla tempesta che infuria nel cervello, per un terzo a fare in modo che questa cosa non risulti evidente, non ti faccia sembrare sgradevole con un’ospite. La mia ragazza, che sapeva cosa stava succedendo, non se la passava di certo meglio, doveva sentirsi responsabile del fatto che io non potessi abbandonarmi al pieno della mia crisi perché c’era la sacra ospitalità da preservare. È con questo spirito che, dopo quei cinque giorni, ho detto al medico che ero pronto a tornare al lavoro, e con lo stesso sguardo inquisitorio che avrebbe usato qualche mese dopo mi ha chiesto “ma come stai?”. Io lì ho fatto la stessa scelta che avrei fatto qualche mese dopo, l’ho guardata fissa negli occhi senza tentare di distogliere lo sguardo, perché tanto ormai il mio corpo aveva imparato a isolarsi, e le ho detto: “mi sento un po’ triste”. Il giorno che pensavo sarebbe stato il primo della mia guarigione, quindi, mi ha prescritto gli antidepressivi.
In quei giorni ho fatto una cosa che non avevo fatto mai. Sono salito sulla Specola. Questa foto l'ho mandata ai miei genitori, sto indicando il campanile del paese in cui vivono.
Sapevo che gli antidepressivi servono, sono un valido aiuto, ci ero passato, nel senso che in famiglia era già capitato di doverli tenere lì nella dispensa, sui comò, in bagno; ho visto cosa succede a usarli come non dovrebbero essere usati; ho capito cosa vuol dire davvero non riconoscere una persona, e non essere riconosciuto. Ma poi, per quanto siano una medicina, gli antidepressivi si portano sempre la nomea di “quella roba lì”. Schifezze chimiche, robaccia con cui stare attenti, da cui stare alla larga. Chissà perché con i calmanti più cool questo non succede. Forse perché gli antidepressivi sono una cosa più lunga, metodica, in un certo senso li si prende per periodi talmente lunghi che il trattamento finisce per confondersi con la vita stessa, e nessuno vuole che la propria vita possa dipendere da un farmaco. Quando il medico li ha nominati, mi ha attraversato una vampata di terrore, che presto ha bruciato in una nuvola di incredulità. Mi sono chiesto
È stata mia madre ad andare in farmacia con la ricetta, io forse l’avrei lasciata in un cassetto, con l’idea di andare a comprarle, forse, un giorno, magari vedo un po’ come sto, non serve iniziare subito, magari non ne ho bisogno, si è sbagliato il medico, devo averla fatta troppo tragica. È stato davanti a lei, nella terrazza in cui ero cresciuto, in una giornata di sole calda, secca e asfissiante, che ho sciolto le mie prime otto gocce di Escitalopram in un bicchiere di acqua a temperatura ambiente, l’ho mescolato e ne ho fatto un solo sorso. Ho pensato che da lì non sarei più tornato indietro, che la mia felicità sarebbe dipesa da quello per chissà quanto tempo. Ma in fondo, mi sarebbe bastato aspettare che facesse effetto. Il medico aveva detto “All’inizio peggiorerà, poi starai meglio”. Poteva quindi andare peggio di così?
Circa una settimana dopo quel pomeriggio sulla terrazza di mia madre, una sera, ero a bere una coca cola in un giardino estivo di Padova, e ho avuto la sensazione che attorno alla mia visuale i contorni si rabbuiassero, opacizzandosi, annerendosi, un po’ come se un otturatore si stesse chiudendo lentissimo, troppo lento perché l’occhio umano ne avvertisse il movimento, come succede per gli otturatori veri nelle macchine fotografiche, ma per il motivo opposto. Una lunga esposizione, durata circa un giorno. Mi ha preso in ufficio, e per prendere aria sono fuggito su un altro terrazzo, a piangere. Un'altra cosa della depressione è che non si scoppia a piangere, si inizia e basta, senza una scossa tellurica di avvertimento, è più una falda che non si contiene. Non sono riuscito a fermarmi per quasi un’ora; ricordo che nel tempo in cui sono stato seduto lì, a guardare la tangenziale sotto a una temperatura torrida di fine giugno, l’ombra si è spostata, lasciandomi esposto a un sole che non aveva pietà. È lì che è iniziato il vero buio.
Non mi sono più alzato dal letto per i giorni successivi, mentre l’estate si faceva sempre più tragica e immobile; il cielo blu senza una nuvola era brutale nella sua perfezione, il caldo umido e afoso crudele nell’accanirsi sul mio corpo definitivamente scarico, paralizzato. Di paralisi si parla, perché era incapacità di muoversi, afasia, rinuncia a trovare un senso, a prendere una qualsiasi decisione. La mia ragazza mi chiedeva se volevo un’insalata o una pasta, rispondevo dopo lunghi secondi fissando il vuoto “non lo so”. La mia ragazza mi chiedeva se volevo andare a trovare i miei o se volevo venire con lei a camminare lungo il fiume, rispondevo “non lo so”. Mi chiedeva se preferivo che lei fosse lì o se volevo stare solo, rispondevo “non lo so”. Ogni decisione richiedeva uno sforzo che non ero in grado di affrontare.
Ma dormivo bene, e dormivo tanto. Non facevo incubi, riuscivo ad addormentarmi senza fatica, il problema è che anche dormendo a lungo non potevo dormire per sempre, e prima o poi arrivava l’istante in cui dovevo alzarmi dal letto. Lo facevo, prendevo un Polase, come se davvero potesse aiutarmi a reintegrare le energie di cui mi sentivo svuotato, e poi mi sedevo sul divano.
Non riuscivo a smettere di pensare a quello che mi aveva portato lì, e volevo solo che arrivassero le 18, l’orario in cui dovevo prendere le mie otto gocce. Da lì in poi, la giornata era finita. Davvero, importava solo quello in quei giorni: quei pochi secondi in cui le gocce scendevano dalla boccetta e si scioglievano nel bicchiere. Non esisteva altro, erano ore costruite attorno a quei pochi secondi. A volte anticipavo il momento delle gocce, sono arrivato fino alle 17, un’ora prima. Mi illudeva che la giornata finisse prima, che il tempo passasse più veloce, ma non ho mai vissuto giorni più lunghi di quelli.
Ho guardato puntate su puntate di Cortesie per gli ospiti senza vedere il senso nel cambiare canale. Ho mangiato piatti che avevo sempre amato senza sentire il benché minimo sapore, l’ho fatto solo per non denutrirmi. Ho risposto a tantissime altre proposte con “non lo so”. Mi sono perso feste di compleanno di cui si sarebbe parlato per mesi ancora, ho risposto a messaggi di gente che mi chiedeva come stessi, ho rifiutato di uscire perché per me era semplicemente inaffrontabile l’idea. Ho pianto senza capire il perché. Ho cominciato a parlare piano, e lento, fino a non riuscire quasi più a esprimermi.
Ho smesso di ascoltare musica. Per la musica ho fatto quasi tutte le scelte della mia vita: la scelta di non andare via da Padova, la scelta di non fare l’eramus, ho rinunciato a qualsiasi cosa per non avere un futuro nella musica, ma non volevo avere un futuro nella musica, volevo avere una band e basta. In quei giorni neppure la band aveva senso, neppure ascoltare la musica. Posso associare un disco, una canzone, a qualsiasi periodo della mia vita. Quel periodo non ha musica, perché non ne ho ascoltata. Ogni canzone era come quell’angolo di cui ho parlato prima.
Mi ricordo bene anche la prima volta in cui ho guardato negli occhi la mia psicoterapeuta
o almeno quella che era candidata a diventarlo, perché avevo sentito dire che non necessariamente la prima sarebbe stata quella giusta. Un pensiero che mi terrorizzava: l’ultima cosa che volevo era imbarcarmi in una ricerca difficile di una persona che potesse aiutarmi, al prezzo di ricominciare daccapo, non avrei potuto tollerarlo. Poi una volta, qualcuno mi ha detto che il punto non è tanto che sia lei quella giusta, è essere noi giusti con lei.
Un esaurimento nervoso si decide per bivi fulminei, in cui hai delle scelte da compiere, alcune sbagliate, altre meno. Sei costretto a farlo da quella sensazione che il tempo e lo spazio attorno a te si comprimano e dilatino assieme, stretto tra il non avere respiro tra i pensieri negativi e l’immensità a perdita d’occhio delle giornate desertificate. Quindi la situazione si decide a scatti, goccia dopo goccia. Una di queste è stata guardare negli occhi la mia psicoterapeuta che mi ha detto “Allora, mi racconti che succede.” e dirglielo davvero. Non mi ricordo le esatte parole con le quali ho iniziato, ma mi ricordo di aver pensato che era finalmente la mia occasione di parlare a qualcuno di quanto mi facevo schifo, senza distruggere la mia immagine, senza rischiare di perdere tutto. Quella cosa per cui devo sempre piacere alle persone con cui mi relaziono stavolta potevo dimenticarla, e con lei ero libero di essere davvero la merda che sono, e che mi ha portato a vivere intrappolato in un personaggio che non mi apparteneva. È stata la cosa più giusta che potessi fare: svuotare la mia valigia sul tappeto; è sembrato persino facile, se ripenso a pochi giorni prima, sul divano: la mia ragazza mi ha guardato negli occhi, sono riuscito a incrociare i suoi dopo tutto il tempo passato a fissare il muro, lacrimando senza piangere, e l’ho sentita dirmi “ora io esco dalla stanza, tu chiamala”. Ho annuito. Ho aspettato che uscisse, poi ho composto il numero, mi ha risposto una voce femminile anonima. Le ho detto:“Buonasera. Io sto attraversando un momento un po’ difficile. Avrei bisogno di parlare.”
Avevo avuto la crisi da poco più di una settimana.
“Sei stato molto coraggioso e forte a prendere subito in mano la cosa”
mi hanno detto. Non che non mi piaccia sentirmi dire cose belle, a tutti piace. Ma non riesco proprio a capire cosa c’entri il coraggio. Ho fatto ciò che ho fatto perché ero disperato, non avevo più altra via d’uscita, a parte una che non ho mai realmente considerato. Per me è stato cercare la superficie dopo aver tenuto la testa sott’acqua: non è più chiaro se sei tu che vuoi emergere o l’acqua stessa che ti spinge su.
Forse a un certo punto mi è stato chiaro che non ce l’avrei mai fatta da solo, e da quel momento, in un certo senso, ha smesso di essere affar mio. Il mio corpo si è spento, e si è consegnato al ricovero, nelle mani di chi avrebbe potuto fare qualcosa: il medico di base, con la ricetta degli antidepressivi; la psicoterapeuta, con le sue domande generiche che si conficcavano sempre nel centro esatto del mio dolore, la sua stanza spoglia e i suoi lunghi silenzi; la psichiatra.
Al centro di salute mentale mi sono seduto in sala d’aspetto con altre due persone, ci guardavamo furtivi, distogliendo lo sguardo ogni volta che per sbaglio lo incrociavamo. Ognuno cercava di capire quanto fosse pazzo l’altro, per sentirsi più sano di lui. E l’ho pensato anch’io: sono finito in sala d’aspetto coi pazzi. Sono pazzo anch’io. Com’è potuto succedermi questo senza che me ne rendessi conto, senza che mi fermassi in tempo? Perché non mi avete fermato prima?
La psichiatra mi ha fatto delle domande, le ho risposto che le cose andavano meglio, era luglio inoltrato. Le ho detto che il mio medico mi aveva dato delle gocce, che la prima settimana sembrava tutto normale, a parte gli attacchi di panico, che la seconda settimana trovavo insostenibile la vita e la veglia, che la terza settimana poi, all’improvviso, mi si era acceso l’interruttore, ed ero andato in Prato della Valle a mangiare un gelato, a sentire l’aria sulla pelle; è stata una sera in cui non ho fatto nulla di che, ma è stata la prima in cui mi è sembrato possibile fare qualcosa. Era appena iniziato luglio.
“Forse bisogna provare una cura antidepressiva.”
“È necessario un aiuto psicologico.”
“Ti prescrivo un consulto psichiatrico.”
Sono frasi che fanno una paura che faccio fatica a restituire sulla pagina, quando capisci che sono rivolte proprio a te. Per quanto fossi disperato, non mi sentivo ancora al di qua della barricata, pensavo “forse ho sbagliato a venire qui, in fondo sono solo un po’ stressato, non sono pazzo. Non voglio essere pazzo. Dallo psichiatra ci vanno i pazzi.”
Aspettare che l’Escitalopram facesse effetto in quelle due settimane è stata per distacco la cosa più difficile che abbia mai fatto nella mia vita, e rendendomi conto della busta vuota esanime in cui mi avevano trasformato quelle otto gocce al giorno, una dose quasi risibile, la tentazione di smettere era fortissima. E lo è anche dopo quindici giorni circa, quando le gocce cominciano a fare effetto e di colpo la vita diventa una strada spianata verso la possibilità; quindi che bisogno ne hai? Non ho smesso di prenderle, né quando facevo schifo e l’unico gesto che riuscivo a compiere era cercare su google “in quanto tempo fa effetto escitalopram” e leggere parole sconnesse di persone di qualsiasi estrazione ancora più disperate di me, né quando mi sono risvegliato, la serotonina ha fatto di nuovo contatto con le sinapsi e il mio cervello ha ricominciato a ragionare. È stato, ancora, un decidersi in uno scatto repentino, tutto in un istante. Come a gennaio, quando ero dal medico, e le ho detto
“In realtà ultimamente non benissimo.”
Sono uscito dalla porta dello studio della dottoressa piangendo, non lo facevo da un sacco, ma mi ha detto “continua l’Escitalopram fino a giugno prossimo” ed è stato come voler uscire dalla finestra e schiantarmi sul vetro.
L’ho sempre comunicata così:
Riducendo. Abbassando. Minimizzando. Nella mia testa era una tragedia, ma non lo potevo ammettere, perché il dolore degli altri valeva più del mio, e questo ci aggiungeva dolore. Per rimuoverlo, non mi restava che sminuire, delegittimare.
È quasi un anno che non cambio il giorno al calendario che ho sopra il mio frigo. Ho smesso di farlo il 19 giugno, perché rientrava tra le azioni che avevano perso qualsiasi senso. Sto ancora prendendo le gocce di Escitalopram, vedo la mia psicoterapeuta una volta la settimana, talvolta faccio ancora fatica a raccontarle cose che mi imbarazzano, che mi demoliscono, perché nonostante con lei abbia iniziato col piede giusto, ci frequentiamo da un po’ ed è subentrato quel desiderio di non farmi del tutto disprezzare da lei, il che mi porta a mentire, a deviare, a girare intorno. La psicoterapia è entrata in una fase paludosa, dopo i grandi fiumi in piena degli inizi, in cui è come pisciare, pisciare e svuotarsi e sfogarsi e avere di colpo un po’ di fiato, e sapere che nessuno mai li vedrà quegli escrementi vomitati; la fase paludosa è tornare sugli stessi cantieri, aggiungere un mattone, poi guardare da lontano il cantiere e non notare differenze. È lungo, è difficile, è costoso.
Ho fatto un concerto dopo la mia crisi, circa un mese dopo, e qualcosa di lì in poi si è rimesso in moto. Ho avuto il terrore, per un po’ di non farcela più a trovare un senso. Perché la paura più grande di affrontare una terapia è scoprire un giorno di non tornare mai più sani, di non essere più gli stessi di prima, avere la testa compromessa per sempre, chiusa da una nube che gli altri non vedono, a cui sembrano essere immuni.
È il giugno 2020 e la mia vita è ancora qui. Il che significa che sono qui anche le cose che mi fanno stare male, non le posso distruggere, ma ho iniziato a smontarle. Quando una cosa la smonti magari non ti occupa più tutto il garage, la puoi accatastare. La rivedrai ogni volta che ci entrerai in garage, non sparirà di lì da sola, e non è che puoi non entrarci mai più in garage. Però puoi lasciare che ci si posi della polvere, e magari un giorno la guarderai, e ti renderai conto che lì, smontata e accatastata, in fondo non ti serve più.